Bob Dylan – “Rough and Rowdy Ways” (2020)

Articolo pubblicato su http://www.loudd.it il 06/07/2020

Don’t ask me nothin’ about nothin’

I just might tell you the truth

(Outlaw Blues, 1965)

Bob Dylan non è uno che puoi scoprire un giorno per caso in radio o alla TV o su Spotify. Come ogni Artista, Bob Dylan te lo devi cercare, con sudore e sacrificio; lo devi seguire, con dedizione e pazienza infinita e, una volta che l’hai trovato, provare a stargli dietro, con la consapevolezza che lui sarà sempre due passi avanti, o di lato, o addirittura – perché no? – indietro, senza mai farsi davvero (com)prendere. Nell’ambito della popular music, Dylan ha ormai conquistato lo stesso posto che Shakespeare occupa nell’ambito della letteratura: per dirla con Harold Bloom, potrebbe essere il centro eternamente presente di un ipotetico canone occidentale da cui s’irradiano passato e futuro, summa maxima della tradizione americana, perfetta espressione del contemporaneo e profezia di un domani che ancora deve dispiegarsi pienamente. Non sono forse i cosiddetti, e tali ufficialmente titolati,“Basement Tapes”, per scegliere un solo esempio fra i tanti (e parliamo del ’67), la crème de la crème della tradizione statunitense e precursori, al contempo, di tutta la musica “americana” a venire? Al suo meglio, Dylan non ha rivali, soltanto pallidi imitatori; al suo peggio, Dylan diventa il più ridicolo imitatore di se stesso – ma rimarrà, ancora per molti decenni a venire, la pietra angolare – non l’unica, di certo la principale – con cui ogni bardo canterino che voglia trafficare con musica e parole deve fare i conti e, in qualche modo, misurarsi.

A patto che non ci si faccia prendere da aspettative dettate più da soggezione/suggestione che da lucida oggettività e si tenga a freno l’insopportabile esaltazione da social network (“capolavoroooo!” – “sono in estasi!” – “entusiasmante!” – “ma questo è Dio!” ecc.), Rough And Rowdy Ways è senz’altro tra i migliori album del Dylan versione “nuovo millennio”, quella cioè inaugurata nel 2001 con Love And Theft. Che, a conti fatti, consta di appena cinque titoli, se escludiamo i gingillamenti coveristici in cui Egli ama indulgere da sempre, con esiti che vanno dall’orripilante (Christmas In The Heart del 2009) all’inspiegabilmente toccante (Shadows In The Night, 2015); e dunque l’ultima manciata di inediti risale all’ottimo Tempest del 2012.

Un viaggio nel lato oscuro della nostra epoca (o di tutte le epoche), che suona ad un tempo familiare e misterioso. Come il miglior Dylan, come il peggior Dylan. Perché se da un lato, gettando uno sguardo panoramico ex-post su sessant’anni di carriera, è piuttosto facile individuare i brutti dischi (al volo: Knocked Out Loaded del 1986 e Down In The Groove di due anni successivo, Under the Red Sky del 1990) e i capolavori di Sua Maestà (troppi, cito solo quello che considero l’ultimo ascrivibile a tale categoria, vale a dire Time Out Of Mind del 1997), la faccenda si complica quando si tratta di collocare nella giusta prospettiva ogni ultima uscita. Aveva strappato frettolosi ululati orgasmici anche Tempest, otto anni fa, salvo poi subire un leggero ridimensionamento (però “Duquesne Whistle” la fischiettiamo ancora tutti, noi “dylaniati”).

What looks large from a distance,

Close up ain’t never that big.

(Tight Connection To My Heart [Has Anybody Seen My Love], 1985)

Be’, diciamolo subito (subito?): Rough And Rowdy Ways è esattamente il Dylan che potevamo aspettarci in questo ridicolo, farsesco 2020, epitome dell’umana meschinità e pochezza (il 2020, non il disco), già a partire dal sound (del disco, non del 2020), una commistione tra le atmosfere smooth degli ultimi tre album di studio, in cui rivisitava i grandi standard americani e quelle, un po’ logore e fruste, inaugurate con Modern Times (2006), anche se qui la strumentazione è più discreta: evoca atmosfere e ambienti quasi onirici, si offre all’orecchio con sommessa eleganza;  certo, la bellezza di questa musica sta proprio nella polvere e nelle ragnatele, nel suo essere modernamente vintage, sempre uguale a se stessa, incontaminata ed eterna. Il punto è che l’eternità, in certi  momenti, può risultare terribilmente noiosa. Di “Murder Most Foul”, ad esempio, si è già detto di tutto e forse mai – vado a memoria – si sono versati sì tanti fiumi d’inchiostro in sì breve lasso di tempo; eppure, anche qui, dobbiamo essere onesti: si tratta di una “canzone” mortalmente noiosa. Ma si sa: cercare gratificazioni immediate ascoltando Dylan significa farsi male due volte. Nessuno è mai stato così abile e lesto nel cogliere quello che potremmo definire una sorta di “inconscio collettivo culturale” (stavo per scrivere Zeitgeist, ma non è un termine dylaniano) e i diciassette interminabili minuti di “Murder Most Foul” ne sono fulgido esempio.

May you have a strong foundation

When the winds of changes shift

(Forever Young, 1974)

“Per me non è nostalgica. Non penso a ‘Murder Most Foul’ come a una glorificazione del passato o una sorta di omaggio a un’età perduta,” ha dichiarato al New York Times. Sarà anche vero – e chi siamo noi per mettere in discussione quello che Dylan afferma in un’intervista che suona peraltro piuttosto sincera? Il fatto è che questa sensazione di “glorificazione del passato” serpeggia da sempre in quasi ogni sua opera e pare aver raggiunto l’acme proprio con Rough And Rowdy Ways: da qui si può solo guardare avanti, il passato è già stato tutto scandagliato. Tuttavia sarebbe un errore imperdonabile pensare che uno come Bob Dylan stia semplicemente mettendo in atto un banale teatrino nostalgico. La soluzione alle grottesche brutture della nostra epoca, pare suggerirci, è nella tradizione: non dobbiamo dimenticare o, peggio ancora, cancellare la Storia.  Qui ce lo dice esplicitamente, senza simbolismi o tortuosi percorsi. Il futuro è dietro di noi: non abbiamo bisogno di sempre più moderne tecnologie, ma di un Nuovo Umanesimo. Nel suo omaggiare la Tradizione e allo stesso tempo rompere con essa, Dylan è poeticamente scorretto, come lo furono, in modi diversi, Woody Guthrie, Little Richard e Johnny Cash. Come lo fu anche Shakespeare.

Il fantasma del citazionismo ulula nelle ossa del suo volto fin dall’iniziale acquarello di “I Contain Moltitudes”, che entrerà, a giusta ragione, nel canone dylaniano (e nel prossimo “Greatest Hits”) assieme, ci si augura, a “Mother Of Muses” che per chi scrive è forse la canzone più bella del Dylan versione New Millenium: chi, oggi, può permettersi di invocare le Muse (addirittura per nome: Calliope, in questo caso) senza cadere nel ridicolo? E soprattutto, quale Musa non esploderebbe in sghignazzi d’incontenibile ilarità se venisse invocata da qualsiasi cantautorucolo indie dei nostri giorni? “I’m travelin’ light and I’m a-slow coming home” è l’inquietante chiosa che richiama l’ultimo Leonard Cohen…

Detto che “False Prophet”, “Goodbye Jimmy Reed” e “Crossing The Rubicon” sono i soliti rauchi blues “dylaneschi”, magnificamente suonati, certo (basti leggere i nomi: Charlie Sexton, Bob Britt e Donnie Herron alle chitarre, Tony Garner al basso e Matt Chamberlain alla batteria, affiancati da ospiti tanto illustri quanto invisibili come Fiona Apple  e Blake Mills) ma forse non sempre e non tutti necessari; detto che l’ispiratissima “My Own Version Of You” assieme alla un po’ meno riuscita “I’ve Made Up My Mind to Give Myself To You” offrono prove vocali incredibilmente toccanti che riscattano la non brillantissima scrittura; detto che la magnifica “Black Rider” è il terzo capolavoro del disco, rimane da dire di “Key West (Philospher Pirate)”, brano che meriterebbe un piccolo saggio a sé, ma lo spazio (già ampiamente sforato) non ce lo consente. Si tratta, in sintesi, di una delle canzoni-chiave non solo di Rough And Rowdy Ways ma di tutta la carriera (da mettere accanto, per intenderci, a cose come “Desolation Row”, “Sad-Eyed Lady Of The Lowlands”, “Idiot Wind” o la più recente “Highlands”), una “Most Of The Time” che, trent’anni dopo, osserva la propria indicibile bellezza riflessa nel torbido stagno della nostra epoca malata, per poi alzare lo sguardo e fissare la linea dell’orizzonte. E sorridere, perché sa che là troverà la pace, la terra promessa…

I put down my robe, picked up my diploma

Took hold of my sweetheart and away we did drive

Straight for the hills, the black hills of Dakota

Sure was glad to get out of there alive

(Day Of The Locusts, 1970)

Mentre scrivo leggo che l’album è finito dritto al primo posto di tutte le classifiche che contano, posto che esistano classifiche che contino, e sono convinto che all’uomo di Duluth questa cosa stia regalando una soddisfazione infinitamente più grande di qualsiasi premio da sagra. Nobel compreso.

The Ego Ritual – “The Ego Ritual EP”

Una piccola, esilarante, eclettica gemma psych-rock.

Originari di Lincoln, UK, i tre bizzarri musicisti che rispondono ai nomi di James Styring (voce; già con The Popodogs prima e B Leaguers poi), William James Ward (chitarra e sorgente inesauribile di riff) e Gaz Wilde (oltre a suonare la batteria, si è anche occupato della produzione), esordiscono come The Ego Ritual con questa piccola, esilarante, eclettica gemma che va a sfruculiare baldanzosamente nel ricettario dei Sixties più profondi per cucinare una miscela psych-rock contornata di cascami paisley all’insegna del disimpegno.

Nello spazio di quattro canzoni, l’EP omonimo – corredato ironicamente da un intro e da un outro di bonghi e chitarre raga – procura l’effetto della prima sorsata di birra gelida in una serata canicolare: va giù con quella freschezza corroborante che ti riconcilia anche con le oscillazioni dello spread, e si viaggia acidi che è un piacere, senza pensieri, anzi pensando solo a godersi il caleidoscopio in technicolor che dalla perfidamente catchy “Chakra Maraca” conduce ai deliziosi crunch di “Days Of Set” (e qui la nota di merito va al lavoro vocale di Styring). Tra le due, una “Ten Points For The Red Star” solidamente radicata in dense trame proto-heavy (ascoltatevi l’assolo di Ward) e la superba chicca power-pop di “Serenade The Ley Line”, forse il pezzo più pregiato del lotto.

Se vi piacciono le canzoni infarcite delle solite marchette sociali o politiche, questo non è il disco che fa per voi; se, invece, volete passare una ventina di minuti su piani astrali lontani dalle brutture dell’umanità e divertirvi pure, ecco, cliccate qui; https://theegoritual.bandcamp.com/ e per la bellezza di 5 sterline (o 3,95 se preferite il digitale) potete farvi un bellissimo trip. Anche più di una volta…

(Guardatevi qui sotto il video di “Days Of Set” e abbandonatevi per 6 minuti e 25 secondi).

Ezra Furman – “Transangelic Exodus” (2018, Bella Union)

“Non è un concept album vero e proprio, ma più un racconto o una serie di racconti su un unico tema, una combinazione di fiction e mezze verità. Il filo conduttore è che io sono innamorato di un angelo e il governo ci sta dando la caccia e dobbiamo lasciare casa perché gli angeli sono illegali. Il termine ‘transangelico’ si riferisce al fatto che le persone diventano angeli perché si fanno crescere le ali. Si operano e si trasformano. E ciò provoca il panico perché la gente pensa che sia contagioso e che dovrebbe essere fuori legge.”

Ezra Furman, ebreo e omosessuale, sbatte in faccia alla società americana quella che lui stesso definisce una “queer outlaw saga” cioè una “saga di froci fuorilegge” e invita il mondo a scoprire le carte sui temi della diversità e della trasformazione personale, insufflando nuova linfa poetica in una metafora – quella degli esseri umani che diventano angeli – che in mani meno aggraziate sfiorirebbe nella più puerile banalità diaristica.  In una società che ha bandito la sofferenza mediante atti normativi di ottimismo e positività[1],  l’artista di Chicago rivendica il diritto di soffrire per cambiare e si riappropria del diritto di cambiare per divenire ciò che naturalmente si è.

Transangelic Exodus racconta questo doloroso processo di trasformazione in esseri liberi attraverso la metafora del viaggio: è una poetica autoaffermazione d’identità, che si rivela tanto più autentica quanto più il suo protagonista diviene consapevole di sé e prende coscienza che fingere, ovvero adeguarsi ai costrutti sociali predefiniti di razza e di genere, equivale a morire. I valori di umanità, empatia e compassione riconquistano, in questo plumbeo ma salvifico memoriale on the road, quella valenza universale che il propagandismo ideologico ha goffamente inaridito e perfidamente  strumentalizzato. Ed è per l’appunto tra “pubblico” e “privato” – un “pubblico” fatto, quando va bene, di indifferenza, sdegno e scherno o, quando va male, di violenza fisica e aggressione psicologica; un “privato” popolato di dubbi, di inquietudine, di interrogativi, di profondo scavo interiore – che i due amanti “transangelici” rimbalzano nella loro folle e meravigliosa fuga (“esodo”) alla ricerca di un luogo dove poter essere se stessi. Un luogo che non è e non può essere “il mondo”, bensì un esilio, o esodo appunto, permanente.

Deciso a rinnovarsi, Furman liquida i Boy-Friends e assolda i Visions ovvero cambia semplicemente nome alla band (“Eravamo giunti alla fine e volevamo diventare qualcosa di nuovo”) innestando nelle trame sonore strumenti inediti e accrescendo pesantemente il ruolo del synth. Il risultato è a tratti bizzarro, frammentario e frenetico, ma funziona egregiamente, financo come tentativo credibile di decostruzione e ricostruzione della musica tradizionale Americana.

Se il precedente Perpetual Motion People (2015) aveva come riferimento principale l’amato Lou Reed (per inciso: Furman ha scritto un libro su Trasformer che vedrà la luce nella prima parte dell’anno), le canzoni di Transangelic Exodus richiamano alla mente altri mostri sacri del rock a stelle e strisce, a partire già dall’incipit, l’intensa “Suck The Blood From My Wound” che nella melodia omaggia il (o ruba al) Dylan di “Hurricane” e, nell’impianto sonoro, lo Springsteen più spectoriano di metà anni Settanta (per quanto mi riguarda, Transangelic Exodus sta a Ezra Furman come Born To Run sta a Bruce Springsteen). La voce del “transangelico” Furman è una magica, provocatoria miscela di queruli accenti glitter, cruda rabbia e vulnerabile passione: una fiamma viva che illumina la gloriosa evasione di Angel dall’ospedale mentre si strappa le bende e sanguina sul sedile del passeggero di una Camaro rossa:

Even the deepest wounds will heal over time

I’ll run my fingers over your scars and yours over mine

They’ll never find us if we turn off our phones

We’re off the grid, we’re off our meds

We’re finally out on our own

Now I see colour coming back in your cheeks

Angel, don’t fight it

To them you know we’ll always be freaks

Questi versi in particolare sono forse il cuore del plot narrativo: una vera e propria epifania dell’esperienza del diverso, ostracizzato, discriminato e costretto a rifugiarsi in un mondo parallelo.

Anche il sound vive di conflitti e opposizioni in una frammentarietà un po’ convulsa che però nulla toglie all’appassionata bellezza dell’opera. Ad esempio, in “Driving Down To L.A.” (primo singolo estratto dall’album) Furman traccia una perfetta melodia à la Neil Young e si diverte poi a importunarla con crepitii elettronici quasi noise, mentre nella splendida “God Lifts Up The Lowly” il violoncello domina lo spazio sonoro e accompagna il canto con solenne malinconia fino alla preghiera (in ebraico) finale. Emerge qui la sincera fede in Dio di Furman, che dissemina nei testi e nell’artwork riferimenti alla propria cultura (tra i più evidenti: la numerazione dei brani).

Tra blues sgangherati che richiamano certo Tom Waits (“Come Here Get Away From Me”), visioni sonore immaginifiche di ciò che avrebbero potuto essere i Beatles a metà anni ’70 (“Psalm 151”) ed esperimenti non troppo riusciti (uno solo, a dire il vero: “From A Beach House”), emergono almeno due capolavori assoluti: “No Place”, un disperato arrembaggio condotto da squillar di trombe e sferragliare di tamburi contro un mondo ostile, che contiene uno dei versi decisivi di tutto il disco: “Something tells me I may be / singing this song a long, long while / but I’ll be bringing along a big broad smile”; e “Love You So Bad”, una delizia kitsch (ancora quel violoncello!) da ascolto in loop.

La fabula termina con la già citata “Psalm 151”, ma a chiudere il disco Furman inserisce una canzone che nulla o quasi ha a che vedere con il “concept” di Transangelic Exodus. “I Lost My Innocence” è un poscritto sbarazzino e un po’ sciocco che conserva tuttavia un fascino indecifrabile: dopo il durissimo, oscuro viaggio di trasformazione, la gioia di vivere, qui espressa tramite la prima esperienza omosessuale – che con perfida ironia Furman definisce “incidente” – si afferma prepotentemente su tutto il resto:

I lost my innocence to a

Boy named Vincent

In a single incident I was changed

[…]

I lost my innocence to a

Boy named Vincent

And a new existence soon found me

Il protagonista è venuto a patti col proprio passato e, pur sapendo che dovrà continuare a pagare il prezzo della propria diversità, ha finalmente (ri)trovato se stesso. Ora può affrontare il domani, ad ali spiegate.

[1] Giuro, è l’ultima volta che lo scrivo.


Janaki’s Palace – “Everything Is Temporary” [EP] (2020)

Eccellente EP d’esordio dei Janaki’s Palace, “Everything Is Temporary” danza in punta di piedi con elegante levità tra psichedelia, soul e fragranze brit(ish) pop.

Dici Borgomanero e subito la mente vola alla (neo-)psichedelia. Ok, non esattamente, ve lo concedo. Tuttavia da Borgomanero provengono i giovanissimi Janaki’s Palace, quintetto che in era pre-COVID-19 – il 21 gennaio, se amate la pedanteria – ha dato alle stampe per i tipi di Costello’s Records un EP, Everything Is Temporary, che nella psichedelia affonda unghie e radici.

In epoca di barboso e barbuto cantautorato indie e conati trap, suonano deliziosamente out-of-fashion queste tre spumeggianti canzoni innervate di un’edenica immaturità che ne alimenta viepiù il fascino. “Essere immaturi significa essere perfetti,” sentenziava Oscar Wilde (o meglio, Lord Henry Wotton in The Picture of Dorian Gray) e come dargli torto?

L’impasto sonoro è di grana talmente fine che pare quasi doversi sfaldare da un momento all’altro in mille petali sonori; e talora accade, quantunque un attimo dopo essi tornino magicamente a ricomporsi, seguendo logiche armoniche rigorose e disciplinate, non sprovviste, tuttavia, di una certa originalità. Tutto ciò è abbastanza evidente in “Reflections” (a mio avviso, il migliore dei tre pezzi che compongono l’EP), dove il prezioso e ben costruito lavoro del basso fa da intelaiatura a un arrangiamento che si muove tra stop and go  e cambi di tempo pienamente funzionali al brano, il tutto impreziosito da fraseggi e temi chitarristici tanto semplici quanto deliziosamente accattivanti.

Le altre due tracce, “CPH-Ø1” (uscito anche come primo singolo) e “August”, confermano una brillante attitudine alla melodia e alla coralità ariosa. Questa è musica che respira e che fa respirare.

Ora, un “vero” critico concluderebbe con qualcosa del genere: “li aspettiamo alla prova sulla lunga distanza”. Io, invece, mi godo questo breve, incantevole EP senza aspettarmi nulla. Va già benissimo così, visti i tempi che corrono.

Una nota di merito a parte mi sia concesso apporla a margine per la bella voce di Chiara Ruga, la quale si destreggia con una padronanza degna di lode su saliscendi acidulo-melodici non propriamente semplici. Applausi.


Dalton – “Papillon” (2020)

Articolo pubblicato su http://www.loudd.it il 04/05/2020

«I gruppi Oi!, aumentando intenzionalmente la quantità di retorica basata su una nozione ideologica di classe operaia, trasformarono qualitativamente il punk rock. In quel modo riuscirono a proteggere la loro musica dai critici trendy e scorreggioni, che altrimenti avrebbero tentato di appropriarsene, di sofisticarla e di incorporarla nel discorso della cultura alta.»

(Stewart Home, Cranked Up Really High, trad. it. Marci, sporchi e imbecilli. Attraverso la rivolta punk, Castelvecchi, Roma, 1995)

Una breve premessa.

Per comprendere l’utilizzo della parola “punk” o “punk rock” che leggerete in questa recensione, dovete mettere in discussione il Pensiero Dominante sul punk, ovvero eliminare dai vostri riferimenti ormai sedimentati da decenni nell’idea di punk, tutto ciò che concerne Ramones, Clash, Buzzcocks, ecc, – financo i Sex Pistols, per certi aspetti – e fare un piccolo (o grande, dipende da voi) sforzo per inglobare in questa idea un nugolo di gruppi sorti appena dopo in Gran Bretagna, diciamo tra il 1978 e il 1983, che hanno dato vita a un vero e proprio “sottogenere”, d’impatto mediaticamente assai inferiore e quindi meno vezzeggiato, per non dire rimosso (volutamente?) dalla storia. Sto parlando della scena Oi! o, se preferite street-punk, che raccoglie gruppi come Sham 69, Peter & The Test Tube Babies, Angelic Upstarts, Slaughter And The Dogs, Cockney Rejects, The 4 Skins, Last Resort, Blitz, The Oppressed, The Business – solo per citare alcuni dei nomi più noti. Nelle righe che seguono, sarà questo il senso della parola “punk”, perché queste, oltre alla canzone popolare e al glam rock, sono le radici profonde dei Dalton.

“Travolti da un insolito destino

Per tutti un film, per molti la realtà.”

(Dalton – Qui Quo Qua)

Che Roma sia attualmente l’alveo più fertile, sotto il profilo artistico, di questa Italia martoriata e marcescente, è ormai evidente a chiunque segua le evoluzioni del sottobosco musicale tricolore: le scene – le più varie – sono floride, produttive, palpitanti di vita, pur tra le immani difficoltà dettate da un mercato discografico mainstream da sempre votato al bieco mercantilismo, all’anelito provinciale da “ultima moda” e al clientelismo congenito. Per fortuna, esistono ancora musicisti che della propria visione artistica hanno coraggiosamente fatto un principio sacro e inviolabile.

I Dalton sono, senza ombra di dubbio, tra questi e Papillon, il loro terzo album appena uscito per Hellnation Records, li conferma come uno dei più brillanti gruppi italiani oggi in circolazione.

Gian Lorenzo ‘Giallo’ Abbate (voce e chitarra), Fabio Leggieri (chitarra e voce), Alessandro Catalano (basso e voce) e  Alessietto (batteria e voce) non sono certo gli ultimi arrivati sulla scena Oi!/Skin/Street-punk: ‘Giallo’ e Fabio avevano già militato rispettivamente nei Pinta Facile e nei Duap prima di dar vita, nel 2014, ai Dalton, conquistando immediata notorietà e una vasta nonché solidissima fan base grazie a concerti roventi ad alta gradazione d’alcool, volume e sudore. Dopo l’esordio con il fulminante Come Stai? del 2015, seguito, due anni dopo, da Deimalati, il gruppo consolida la propria fama con decine di esibizioni e con il singolo “Ci siamo persi  / Gudbuy T’Jane” uscito nel giugno del 2019, per approdare finalmente, in questi giorni, a quello che può già definirsi uno dei dischi più importanti di questo 2020.

“Noi, se sa, ar Monno semo ussciti fori

impastati de mmerda e dde monnezza.

Er merito, er decoro e la grannezza

sò ttutta marcanzia de li Siggnori.”

È la voce intensa di Marco Giallini a introdurre l’ascoltatore a Papillon, con un sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli, Li du’ ggener’umani, composto nel 1834: perfetto preludio a “L’appartamento”, street-punk anfetaminico e una melodia-killer, praticamente gli Angelic Upstarts che si danno alla fornicazione coi Generation X, partorendo un anthem devastante da cantare a squarciagola e pogare pinta in mano (quando si potrà, se si potrà…). L’uno-due che non ti aspetti e che ti manda al tappeto una manciata di secondi appena dopo l’inizio del primo round.

Capisci subito che non si scherza un cazzo e che ad abitare l’immaginario dei Dalton sono i perdenti, i veri perdenti, quelli talmente perdenti da essere invisibili: le telecamere dell’opinione pubblica puntano altrove, verso scenari più remunerativi in termini di visibilità e moneta, e dimenticano i reietti – nel senso letterale del termine –, vale a dire tutta quella cospicua fetta di società che ha la sola colpa di essere disadattata, ovvero che rifiuta di adattarsi. Non tutti gli ultimi sono uguali: ci sono gli ultimi che vanno di moda e gli ultimi che invece sono superati, non più (ma lo sono mai stati?) degni di attenzione, quelli “In disparte messi da parte (Sottoproletariato)”:

Quello che parla troppo o troppo poco,

quello che ha sempre giocato col fuoco.

Quello che nun è bono pe’ er re

quello che nun è bono pe’ la regina

quello  che si mmore fa prima

messo in croce dalla società

ma che se batte li chiodi da solo

mentre ve manna tutti affanculo.

[“In disparte messi da parte (Sottoproletariato)”]

Si tratta di uno degli apici di Papillon. Qui emergono in tutta la loro forza le radici Oi! e Skin dei Dalton, fin dall’incazzosa introduzione della linea di basso che scandisce il reggae in stile The Ruts della prima metà del brano; poi una transizione, accompagnata dal verso “non avete mai vissuto” e interpolata dalla ripresa del recitato di Giallini, conduce al feroce punk rock della seconda parte, che non fa prigionieri. E in questo senso va letta anche la copertina.

La farfalla simboleggiala la rinascita e la capacità di cambiamento – richiamata in “Se” (“Se vuoi il cambiamento / devi cambiare te”), brano in perfetto stile bootboy rock/glam anni ’70 -, ma anche l’inconsistenza della bellezza in continua metamorfosi  (non sfugga, comunque, il richiamo al papillon da indossare cui fa riferimento il titolo e e fors’anche al celeberrimo film del 1973 con Steve McQueen…).

“Cristo creò le case e li palazzi

p’er prencipe, er marchese e ’r cavajjere,

e la terra pe nnoi facce de cazzi.”

Non c’è un solo momento di noia in Papillon, non c’è nulla di scontato, tutto gira a meraviglia: gli irresistibili glam’n’roll di “Se la mia pelle vuoi” e “Per Dio” (avete detto Chuck Berry?), altro micidiale uno-due da knock-out, la sorniona e beffarda “Io e tu” (“…finirà che lavori / per pagare l’aldilà”), la quasi surreale “Marianne”, con tanto di cameo vocale dell’icona femminile del punk italiano Eletttro, la spiazzante false-ballad di “Qui Quo Qua” – sono tessere di un mosaico infuocato che va sempre più definendosi ascolto dopo ascolto, all’interno di una cornice, la “romanità”, che i Dalton sfoggiano con rara onestà intellettuale.

L’album si chiude con “Senza Amore”, scanzonata (ma mica poi tanto) e vigorosa. È l’alba e tutto quello che rimane è “soltanto l’acre dolciume di Biancosarti e Cynar”.

Non so voi, ma io, dopo l’ennesimo ascolto di Papillon, romaneggio tutto ch’è un piacere e a chi mi chiede “Che succede?”, rispondo: Oi!

«Le qualità trasgressive dell’Oi! sono la sua unica difesa contro una simile calamità. Tali qualità sono definite “cattivo gusto” da quei burocrati e borghesi che sono bravissimi a inculare la gente ma detestano che i conflitti sociali interferiscano con la loro amministrazione dell’oppressione.»

(Stewart Home, op. cit.)

Addendum

Registrato presso Hombre Lobo (Roma) da Valerio Fisik, prodotto da Glezös (altra icona fondamentale del punk italiano), mixato da Andrea Brancatelli ai Raged Studio (Roma) e masterizzato da Francesco Terrana presso Prisma Studio di Carpi, Papillon è stato realizzato assieme a un entourage che merita di essere riferito in toto: oltre ai già citati Marco Giallini ed Eletttro, hanno collaborato ai cori Maurizio Papacchioli (Gli Ultimi), Alberto Caci (Shots In The Dark), Claudio Leggieri (Lenders), gli interventi alle tastiere sono opera di Andrea Brancatelli, David Shiny D Assuntino e Glezös, mentre al sax figura Danilo Marocchi; infine, last but not least, fondamentali contributi di Fabrizio ‘Big Nelly’ Stefanoni (approvvigionamenti cibi e bevande) e Aldo Santarelli (coordinamento).

[Per ascoltare “Qui Quo Qua” clicca sulla foto]

Arancia sanguinella

"To him who keeps an Orchis' heart – The swamps are pink with June."

suoni tribali

La musica non è nelle note, la musica è tra le note. (Wolfgang Amadeus Mozart)

simio e telespalla

Phenomenal Pop Combo Sound

Silvia's Attic

Voglio dire la mia

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